Masci: Gaomi, il suo villaggio natale, è il serbatoio delle storie che lei racconta. È attraverso i racconti della vita vera che nasce l’esigenza della narrazione. La sua scrittura, che in Sorgo Rosso è già sorprendentemente matura, parte da una tradizione orale o si rifà a maestri letterari?
Mo Yan: La lingua che ho utilizzato è stata molto discussa dai critici cinesi. Ho utilizzato molto il cinese classico nei miei libri. E l’ho contaminato con termini derivati dalle lingue occidentali in trascrizione cinese. E poi ho attinto a piene mani al linguaggio delle persone comuni, alla tradizione orale. Come ho detto non sono una persona di cultura. Fino ai miei vent’anni avevo letto sì e no venti libri. Avevo fatto solo cinque anni di elementari. Vivevo con i contadini e lavoravo con loro. Molti dei miei riferimenti sono racconti orali delle persone che avevo vicino. Scherzando con amici scrittori di Taiwan dico spesso: “mentre voi utilizzavate gli occhi per leggere i libri, io usavo le orecchie per ascoltarli”. Comunque mi rattristava sapere i miei coetanei a scuola mentre io ero a pascolare le capre e i buoi. In realtà ora, dopo avere ricevuto molte bellissime critiche, mi sono reso conto che ho fatto bene a non studiare.